In un mondo di gente riservata io sono delicata come un lavaspurgo

In un mondo di gente riservata io sono delicata come un lavaspurgo.
In un mondo di gente da Mulino Bianco io sembro uscita da un girone infernale.
Poi ci si fa ingannare dai tatuaggi, dalle giacche di pelle, dai piercing. È un bordello. Non se ne esce regà. Vi giuro.
Ma sapete cosa?
Io non ho muri.
Non ho filtri.
Non ho paure.
Penso una cosa e la dico.
Amo e amo forte.
A volte sono possessiva anche nei confronti degli amici.
Attorno a me vedo molti muri.
Non mi fido della gente, dicono.
Sono rimasto scottato, dicono.
Mi sono fidato e l’ho preso nel culo, dicono.
E vivono un’esistenza a metà, tra sogno e rimpianti.
Vi supplico.
Abbattete i muri.
Sciogliete i cuori.
Rimarrete delusi altre cento volte.
Mille, forse.
Ma sarà sempre valsa la pena.
Amare vale sempre la pena.
Donarsi vale sempre la pena.
Siete ricchi dentro, siete belli, avete dei talenti.
Donateli.
Che senso ha chiudersi in una spirale?
Dite ti amo, dite mi manchi, dite ho bisogno, dite sono qui dite a domani, dite sono pazza di te.
Mollate le briglie.
Lasciatevi andare a folle velocità.
E se cadete?
Gesù… vi rialzerete.
Sarete distrutti.
Pieni di ferite.
Ma avrete vissuto quella folle corsa a cavallo.
Quella gioiosa e folle corsa.
Scrollatevi la polvere di dosso.
Tossicchiate.
Poi ripartite. Ci sarà sempre il vostro cavallo pronto a correre con voi.

Prendere un retino per farfalle

Prendere un retino per farfalle, solo molto piú grande.
Mettersi in un punto strategico e cominciare ad acchiappare tutti i tiamo.
Poi sedersi, a fine giornata, su una panchina comoda e libera, e spulciarli tutti. Uno per uno.
Troppo banale, via.
Falso, via.
Distratto, via.
Detto per compiacere, via.
Sdolcinato, via.
Etc etc.
L’idea é un pochino questa.

Mi piace la gente che entra nella vita altrui in punta di piedi

Mi piace la gente che entra nella vita altrui in punta di piedi.
Che non significa entrare nella vita altrui a rallentatore, ma solo con dolcezza.
Mi piace chi si racconta con semplicità: di solito lo fa perché si fida.
Di me la gente dice che spingo a raccontare.
A me fa comodo; adoro ascoltare.
Non so se giudico. Adesso non lo ricordo. Ma non credo. Semmai sono spietatamente sincera. E a volte posso far male. Perché della sincerità non sappiamo più che farcene.
Preferiamo falsi tiamo a veri tivogliobene.
Vogliamo tutto e subito.
Pretendiamo.
Corriamo.
Ci affanniamo.
Mi piace la gente che non mi tocca troppo.
Chi si rivolge a me senza ironia quando non mi conosce abbastanza.
Impariamolo tutti, io per prima. Ironia solo con chi ci ama.
L’ironia è una pistola sempre carica. Può uccidere.
Mi piace chi è empatico. Chi mi guarda, mi sorride e mi abbraccia, perché sa che va di merda e non c’è bisogno di parlare.
Mi piace chi mi telefona senza prima mandare un wa che dice “possochiamarti?”. Bisogna assumersi dei rischi.
E sappiate che io non rispondo MAI. Ma richiamo sempre.
Mi piace chi non nasconde l’amore.
Chi si toglie le voglie.
Chi torna a casa e mi dice: “Guarda cosa ho comprato!!!”.
Mi piace la felicità altrui.
Mi piace quando K si fa prendere in braccio. Pesa più o meno come me, ma torna bambina e ne beneficiamo entrambe. Per quei due minuti prima che la mia schiena si schianti.
Mi piace chi mi osserva perché sono egocentrica.
Mi piace chi non mi dice cosa dovrei fare.
Chi non mi giudica da 21 tatuaggi e qualche piercing.
Chi tace quando è ora.
Chi ama senza paura.

Ho sempre detto ti amo molto presto

Ho sempre detto “Ti amo” molto presto.
Molto presto rispetto a cosa? Direte voi.
O forse no, non lo direte.
Forse rispetto alla… media?
Non ne ho idea.
So però che ai miei ti amo gli uomini sgranavano un poco gli occhi, come se pensassero: “Eccheddiamine”.
Probabilmente li ho proprio decodificati bene, i loro occhi.
Probabilmente le mie tempistiche sono brevi. Sono, come dire, accelerate.
Ma io mica so cosa farci.
Cioè io sono fatta così. Sono sempre stata fatta così.
La prima volta che ho sentito di amare qualcuno l’ho amato per anni, nella mia camera, guardando una sua foto. Lo amavo di un amore irraggiungibile e impossibile. Ma lo amavo. Ero giovane, inesperta, sciocca, bruttina e sovrappeso ma Dio solo sa se l’ho amato con tutto il cuore.
E poi gli altri ti amo sono arrivati sempre presto, improvvisi, imprevisti.
Non mi sono mai pentita.
Io l’amore lo sento nelle vene. Nella pelle. Mi scorre addosso. Credessi nelle vite precedenti mi farei due chiacchiere con qualcuno. Ero una suora? O ero forse una prostituta? O forse una bambina abbandonata e mai amata da nessuno.
Ma no.
Non mi pento dei miei ti amo.
Mai.
Non ho mai detto un tiamo che non fosse vero.
Li vomito con violenza, non li so trattenere, sono pure esplosioni di gioia e riconoscenza.
Tiamo.
Grazie.
Grazie perché mi fai provare queste emozioni.
Grazie perché sei come sei.
Grazie per aver incrociato la mia strada.
Grazie perché mi fai sentire viva.
Grazie perché fai abitare l’amore nel mio cuore.
Uomo o donna che sia.
Io il tiamo lo dico a tutti.
A tutti quelli che se lo “meritano”.
E invece c’è troppa gente che li ingoia.
Ma santocielo.
Che spreco.

Ella viveva senza tempo e senza spazio

Ella viveva senza tempo e senza spazio, avvezza a seguire solo i moti del suo animo tormentato. Orari e imposizioni altrui la facevano sentire come… come… oh, nemmeno lei avrebbe saputo dirlo. Ma accadeva spesso che, dovendo seguire una regola per forza, lei si trovasse poi su tutt’altra strada e senza nemmeno sapere come ci era arrivata di preciso. La gente là fuori avrebbe dovuto capirlo da tempo che lei non era adatta ai ritmi di questo mondo, eppure seguitavano a chiederle cose impossibili. Esistono persone quadrate. Esistono persone rotonde. Esistono persone a zigzag. Ella era sicuramente a zigzag.

Tarlo della gelosia

Tarlo della gelosia?
Ma no. No.
La gelosia è uno squarcio che dalla gola arriva all’osso pubico e lascia scoperto, di noi, tutto.
La gelosia è la malattia più psicologicamente invalidante che esista al mondo.
La gelosia retroattiva non solo è invalidante ma anche inutile.
Se non si parla del qui e ora, che senso ha?
Eppure.
Eppure esiste la gelosia retroattiva.
Tu.
Tu hai osato avere una vita prima di me.
Tu hai osato avere altri uomini prima di me.
Hai dato altri baci, altre carezze, hai detto ti amo e lo pensavi.
Hai preso nuche, le hai tirate a te, hai stretto mani, sederi, hai leccato gole, hai sorriso, hai parlato in codice e forse hai anche un’iniziale tatuata da qualche parte.
Hai sussurrato il suo nome, hai ansimato, hai pianto quando è finita.
No.
No.
Tu cominci da me.
Tu prima di me non esistevi.
Ti ho creato io.
Per me il primo ti amo, a me il primo bacio, con me l’amore.
Tu prima non esistevi.
Si, ecco…così va bene…così…così…
Perché se penso che altre donne hanno anche solo osato appoggiare una mano sul tuo viso io…io…io le troverò. Tutte.
E pregheranno che finisca in fretta.
O che non sia mai iniziata.

Ma no, tu prima non esistevi.
Non esistevo nemmeno io, del resto.

Non è che non potessero scegliere

Non è che non potessero scegliere: potevano.
Potevano andare via prima o attendere e andarsene dopo.
Si ha sempre una scelta.
Loro fecero quello che fecero: uscirono nel buio della notte nel momento di maggior bufera. Non una cosa media; non una cosa piccina. Era lo zenith della bomba d’acqua.
Presero fiato come dovessero fare dieci vasche in apnea, si guardarono attorno per capire se a terra ci fossero impedimenti o buche, si misero d’accordo su dove andare e sul percorso più breve.
Lei impacciata da uno stivale militare e un abito con lo strascico, lui appesantito da mille oggetti e pensieri e parole e e e.
La corsa non fu folle.
Non quella di lei.
Era troppo pesante ma soprattutto… soprattutto voleva quella pioggia. La voleva sui capelli e sulle braccia e sulla schiena e sugli occhi troppo truccati.
Lavami via, lavami via, lavami via.
Lava lava lava lava.
Sii fredda.
Sii potente.
Portami via. Trascinami via.
Aprì l’auto da lontano anche per calcolare la distanza, lui le aprì la portiera poi entrò nella sua.
Chiusero subito, i sedili già zuppi.
Silenzio.
E i loro fiati.
Il fiato grosso e pesante di chi ha corso un chilometro sotto una bomba d’acqua.
Silenzio.
E i loro respiri.
Appoggiano la testa al finestrino.
Lei al volante.
Si guardano stravolti.
Lei pensa che c’è un nome per quel momento lì.

Il quadro

Il portone si apre, lo oltrepassa, annusa l’odore tipico di androne di palazzo antico, ma esita.
Lo richiude alle sue spalle lasciando fuori il freddo della sera. Ma non sale le scale. Non ancora. Viene attirata da una luce. Gli stivali (ha scelto quelli alti al ginocchio) non producono rumore. Al buio, per non perdere equilibrio fisico e mentale, segue il muro con la mano destra (nessuno smalto). Era un cortile interno, la luce. Un delizioso e sorprendente cortile interno. La luce non era elettrica. La luce proviene dai raggi della luna che si conficcano nei muri bianchi di questo cortile con biciclette, due tavolini e una ginko. Lei ama le ginko. Tocca il tronco. Sta perdendo tempo. Ritocca il tronco. Prega brevemente una preghiera insensata e non correlata alla sua religione. Qualcosa del tipo Fa’ che vada bene.
Il cellulare vibra. Nemmeno lo guarda; guarda in su, verso la luna.
Non ha idea del perché sia lì.
Ha fatto dei chilometri.
Ha dovuto inventare scuse.
Ha sbagliato strada.
Ha sicuramente preso una multa.
Ha accarezzato il tronco di un albero che le ricorda la sua infanzia.
Ha indossato abiti che danno di lei un’immagine confusa: gonna corta, stivali alti, capello scompigliato, volto struccato.
Ragazza, vuoi o non vuoi far colpo?
Non lo sa nemmeno lei.
Non si vedono da anni. Anni.
Si aggiusta i capelli troppo corti per essere aggiustati.
Si toglie gli orecchini.
Una seconda vibrazione al telefono.
Se ne rimette uno.
Va bene.
Uno scalino alla volta.

La tromba delle scale è buia e per un attimo pensa di accendere la luce. Ma è solo un attimo. Le serve, tutto quel buio. Le serve per capire quanto buio ha dentro lei in confronto alla luce che dovrebbe avere o che troverà o che lui avrà. Sono passati troppi anni e non ha idea dell’uomo che lui è diventato. Sparito dai social, sparito da google, sparito da chiunque lei conosca. Negli anni, al sentire il suo nome, ha visto molte spalle alzarsi come a dire: “Non ne so niente” e ha lasciato cadere l’argomento. A volte le è venuta una specie di mania di sapere, a volte non le è importato niente. La vita scorre. Anche la sua è andata. Non sempre liscia, ma è andata. Chissà cosa si aspetta lui, invece. Di vederla ancora ragazza. Ancora liscia. Ancora perfetta come un uovo. Invece è invecchiata. La gonna corta e gli stivali alti sono solo un atteggiamento, una corazza. Ma in lei, di giovane, non c’è mai stato niente. Nemmeno quanto era giovane. Al buio, segue il muro con la mano destra. Il corrimano no, quello le fa impressione. I corrimano le fanno sempre impressione. Immagina mani lorde di ogni tipo di cosa. Immagina sangue o moccio o ancora peggio. Non tocca i corrimano.
– Ci hai messo moltissimo.
– Mi sono fermata a
– Guardare il cortile interno, lo so, ti ho visto.
– Hai una finestra che affaccia sul cortile interno e mi hai spiata?
– Non ti ho… sì. Un po’ sì.
– Non è giusto, io ti vedo solo ora e tu invece mi hai già vista.
– Una preview, mettiamola così.
Non si toccano. Non si abbracciano. Lui è molto invecchiato ma è anche molto affascinante. Indossa dei pantaloni morbidissimi e una t-shirt bianca. Stop. Nessuna struttura. Ha solo avuto cura di farsi la barba. Che forse non è cura verso di lei ma verso sé stesso.
– Cos’è?
– Quello che piace a te.
Lei sorride. In effetti il gin non ha mai smesso di piacerle e il White Lady continua, negli anni, a essere il suo drink preferito. Lo beve in un sorso solo.
– Nervosa?
– Non dovrei?
– No… sei con me. Siamo noi. Siamo sempre noi.
Sorride con sincera semplicità, come se davvero si potesse ricondurre tutto a un “Siamo sempre noi”.
– Posso? – E fa gesto di girellare per casa.
Lui fa solo un cenno col capo.
La casa è extrabianca.
E’ una casa Ikea 3.0. Nessuna fotografia. Nessun ricordo. Nessun libro.
E’ una casa non-casa.
– Tu non abiti qui.
– No, è vero. Non abito qui.
– Hai intenzione di ammazzarmi?
– Ma no che non ho intenzione di ammazzarmi. E’ solo un posto che ho trovato per starci qualche giorno.
– Cosa dovevi fare?
– Vedere te.
– E non mi potevi vedere a casa tua?
– Abito troppo lontano. Sei felice?
– No. Non credo di essere mai stata felice in vita mia.
Lui si avvicina, non la tocca e non la sfiora. La guarda solo da molto vicino. Nessuno la guarda da così vicino. La gente annusa la tristezza e sta lontana da lei.

– Non mi guardi.
– Non sei più tu.
Ride – Ma come non sono più io? Sono sempre io! Carne e ossa e tutto quanto. Solo… invecchiato. Come te!
Lei solleva un sopracciglio, un gesto tipico che fa nascere in lui un moto di affetto e tenerezza e di già visto e vissuto che lo fa struggere dentro e lo fa deglutire e gli fa venire in mente altre cose situazioni persone città Venezia per esempio e non questa pseudo cittadina di provincia che si atteggia a essere chissà che cosa, piena di teatri, musei uno più brutto dell’altro e che ha dovuto scegliere solo perché abbastanza vicina a lei da non farla sgroppare e abbastanza lontana da lei perché potesse sentirsi in territorio neutro.
La stringe come un bimbo potrebbe stringere la propria mamma. Il gesto è stato improvviso, lei sussulta, per un momento si tira indietro e rischia di fare cadere il bicchiere praticamente vuoto di White Lady. Lui china la testa, respira l’odore che lei ha tra collo e seno. E’ cambiato, ovviamente. E’ cambiata tutta. Ma non la sua essenza. Non quello sguardo, non il modo di bere violento, non il sorriso e non il modo in cui lei adesso lo stringe per divincolarsi, però, subito dopo.
– Fammi vedere la casa, dai.
– E’ finita, non la conosco nemmeno io, del resto.
– Da quanto sei qui, in questa pseudo cittadina snob che si finge di essere chissà cosa?
Lui pensa allora di aver pensato ad alta voce, e invece no, è certo che quelle quasi stesse parole non gli siano uscite di bocca, solo che la loro cavolo di sintonia si fa sentire anche dopo anni.
– Qualche giorno.
– Gesù, potresti essere più preciso?
– Non lo so! Ho dormito tutto il tempo!
– Nel frigorifero non c’è niente.
– Non sapevo nemmeno ci fosse un frigorifero.
– Non sei poi molto cambiato.
– Ho cenato e pranzato qui e là, in questa pseudo cittadina del cavolo piena di viuzze e trattorie e segnaletica sbagliata. Sono senza auto. In generale proprio, sono senza auto. Non la posseggo.
– Fricchettone.
– Acida.
Ma non si baciano. Lei se lo aspetterebbe, ma lui si allontana. Lei rotea il bicchiere, cerca altro alcool, lo trova appoggiato a un piccolo tavolo rotondo in cristallo.
– Un tavolo in cristallo…
– Non ti sento!
– Dicevo che hai un tavolo in cristallo.
– Non io, il proprietario.
– Sei un abusivo?
– No, l’ho chiesta in prestito. Mi ha fatto trovare le chiavi qui, dalla vicina di casa.
– Gnocca?
– Ma chi? E poi smettila, non ti sento.
– LA VICINA!
– COS’HA LA VICINA?
– E’ GNOCCA?
– Ma cos… – ormai è uscito dalla stanza, si è infilato un golf, sembra più stanco. Le osserva i capelli. Glieli spettina. Sospira. – Ti devo far vedere una cosa. Ti ho fatta venire qui apposta.

L’ultima stanza è grande, bianca come le altre e ha moltissime finestre.
E un letto.
Bianco.
E un comò.
Bianco.
– Tu, tutta nera, in questa casa tutta bianca… fai uno strano effetto. Sembri piazzata. Messa giù in un secondo momento. Una post-produzione.
– In effetti sono fuori contesto. Tu invece hai questo fare da guru.
– Da guru!
– Ma sì. Tutto sciolto. Tutto beige. Tutto rilassato.
– Non lo sono.
– Cosa?
– Rilas
– Dicevo quello. Cos’è.
– Il motivo del tuo essere qui.
– Sono io.
– No. È un quadro.
– No. Sono io. Lo hai fatto tu? Impossibile. Non sai…
– Mi ci sono imbattuto.
– Dove?
– A Praga.
– Sono io?
– Non ho motivo di credere il contrario.
– Chi è l’autore?
– Non si legge. Non ha importanza.
– Da quanto tempo lo hai?
– Molto.
– Quanto?
– Dieci anni.
– DIE… dieci anni? E cosa ne hai fatto?
– L’ho portato con me. Casa dopo casa. Casa dopo casa. Paese dopo paese. Non è grande. Si trasporta. Tu eri sparita e… poi sono sparito io.
– Hai usato degli pseudonimi.
– Sì.
– Non ti ho mai trovato.
– Non ho mai voluto essere trovato.
– Sì, ma quel quadro?
– Un mercato delle pulci. Era su una sedia. Ho dovuto appoggiarmi al muro perché la testa girava. Il naso… lo sguardo… la mascella… eri tu. Il venditore ha capito che m’importava, ha tirato sul prezzo. Non l’ha nemmeno incartato.
Lei si siede sul letto. Fissa il piccolo quadro. Si sente deprivata di qualcosa. Vuota. E piena. Gli dice vieni qui.

Lui non si siede, ma si avvicina.
Si avvicina a una lentezza esasperante senza mai toglierle gli occhi di dosso.
– Hai un sacco di tatuaggi.
– Ho un amico tatuatore e… 
– Sì, lo so come sei tu. Ti fai prendere la mano. Prima uno poi due poi tre e in breve arrivi a una ventina trentina quarantina e sarai una vecchietta molto rock e molto spaventosa, perché sarai spaventosa, lo sai, vero?
– Smetti.
– Di fare cosa?
– Di non dire cose importanti.
– Tipo perché sei qui?
– Anche. Ma credo di essere qui per quel quadro che mi somiglia in maniera spaventosa. Ma non la me di adesso, ma la me di molto tempo fa e non c’è fotografia che possa ritrarmi in quel modo. Aggressività e desiderio. Ma dov’ero? E con chi?
– Qualcuno ti ha fotografata.
– Cosa?
– Mentre eri in giro. Mentre eri sola. Io ho sempre pensato questo. Se non conosci o non hai mai conosciuto nessuno che dipige… be’, allora qualcuno ti ha fotografato e poi ha trasposto la fotografia in colori a olio.
– Mi ha rubata.
– Au contraire.
– No no, mi ha rubata.
– Ti secca?
– Mi… no, non mi interessa niente. Mi interessa che lo abbia tu e che sia arrivato a Praga e perché e perché proprio tu ti sia imbattuto in questo quadro.
– Ma quello non lo saprai mai, quindi smetti di pensarci.
– Dove sei stato? Avevo davvero quello sguardo?
– Quasi sempre. Lo hai anche ora. Desiderio carnale, vendetta fisica, sfida al tempo. Lo hai anche in questo momento. Invecchiare non ha tolto un grammo ai tuoi difetti.
– Dove sei stato?
– Ovunque.
– A fare cosa?
– Cose.
– Senza di me.
– Così come tu ne hai fatte altre senza di me, bimba. Vuoi altro da bere? No? Sei a posto così? Olive? Ma io non ho olive in casa. Questa non è casa mia, lo sai. Arachidi?
E sparisce ancora, si allontana. Va a cercare arachidi, si suppone.
Finalmente l’ha lasciata sola. La sua presenza era troppo ingombrante. E’ tutto troppo grande per lei. La casa troppo bianca, lui troppo tranquillo, il quadro poggiato per terra, il letto assurdamente morbido, la casa sconosciuta. Urla di cercare anche della soda. Lui risponde un sì smozzicato.
Stringe gli occhi, la nostra lei.
Deglutisce.
Manda giù un sapore di bile.
Prende il quadro, apre la porta, scende le scale, tiene la mano sinistra attaccata al muro per non accendere la luce, passa dalla ginko, carezza il tronco, le dice grazie, sempre al buio trova il pulsante per aprire il grosso portone, esce in strada, corre. Respira. Piange.
Non ha idea di cosa sia successo o di cosa stesse per succedere.
Ma ora sa cosa significa la parola “crepacuore”.
Il suo cuore si sta spezzando.
Rantola.
Si appoggia a un angolo di un palazzo.
Il quadro sempre sottobraccio. La borsa che le cade, il moccio che scende, la gola che urla di dolore.
Voleva un lieto fine?
Non c’è mai.

 

Ho visto una ragazza. No, cioè, l’ho sentita parlare.

Ho visto una ragazza. No, cioè, l’ho sentita parlare. Era un video, ecco. Uno di quelli che guardo io. Che tu non approvi. Dici che perdo tempo e forse è vero. Non vedo come potrei impiegarlo altrimenti. Alla fine impiego tempo eccedente facendo ciò che amo. Il punto è che questa società condanna un pochino gli hobby, e gli hobby diventano roba per gente che non ha un cazzo da fare. In realtà secondo me gli hobby sono una cosa bellissima, perché ci danno il modo di esprimere noi stessi senza rompere le scatole agli altri. Io provo a suonare la chitarra e guardo video inutili in rete. Questi sono i miei hobby. Più un altro paio di cosine che non so se siano proprio hobby. Che poi credo si scriva hobbies. Ma sembra un cartone animato, quindi mi concederò una licenza poetica, tanto non puoi ribattere.
Insomma, questa tipa ha perso l’olfatto.
Io nemmeno lo sapevo che si potesse perdere.
E sai cosa ho fatto?
Ho pianto.
Non è che io abbia proprio pianto a singhiozzi, ma mi sono scese le lacrime, quello sì.
L’ha detto come niente fosse perché forse io ero l’unica a non saperlo e ormai non faceva più notizia.
Ho pianto perché ho pensato a te e al tuo odore. A quell’odore così tipico, così tuo, così immutabile, così statico, così profondo e legnoso, quel tuo sapere di buono e di terra e di cose buone e di cose generose.
Ho pianto perché ho immaginato che qualcuno o qualcosa potesse privarmi della possibilità di affondare il naso e i miei sensi in quegli odori lì, nei tuoi.
Non ne hai solo uno, sarebbe banale. Ne hai tanti. Qui sai di legno, qui sai di erba, qui sai di carta, qui sai di aria. Il mio naso, dopo anni, li riconosce tutti, e fa la conta. Controlla che ci siano ancora tutti, che siano ancora tutti lì. E ogni volta, ogni fottuta volta, i miei sensi e le mie sinapsi si rallegrano come quando incontri qualcuno che non vedi da tempo. Le mie sinapsi sorridono, accidenti. Sorridono al tuo odore.
Ho pianto per lei, ho pianto di una mancanza che io non ho. Ma alla fine è così; ci può mancare quello che non abbiamo mai conosciuto, ci può mancare quello che abbiamo già per paura, un giorno, di perderlo.

Mi piace da impazzire guardare le persone

Mi piace, mi piace da impazzire guardare le persone.
Le persone nuove, soprattutto. Ma non solo.
Mi piace… sapete cosa? Quando ti accorgi subito se in una data stanza c’è gente che si ama, si vuole bene, si desidera.
E il contrario, ovviamente.
A volte parliamo di “vibrazioni”. 
Ma non è incredibile percepire queste cose? Non è incredibile essere così interconnessi? Non è meraviglioso che l’amore crei qualcosa di così tangibile da poter essere quasi visto?
Le persone che si amano sono inconfondibili: si attraggono come magneti.
Hai voglia di metterle ai due capi di una stanza! Loro torneranno vicine. Senza accorgersene. Senza averlo voluto. I loro corpi si cercano.
I parenti.
I migliori amici.
Gli amanti.
Mamma e figli.
L’effetto magnete mi innamora totalmente. Totalmente.
Che i sentimenti non siano astrazioni ma cose vere e proprie.
Amore, attrazione.
Odio.
Si sentono nell’aria.
Non lo so.
Io che sono sensibile come una vongola, da ‘ste cose però mi faccio catturare.
Mi sembra magia bella e buona.
Bisogna solo guardare e non vedere e basta.
Ascoltare e non parlare e basta.
Lo dico io no, che parlo sempre.
E comunque se siamo in grado di percepire un sentimento nell’aria, chissà quali altre cose riusciremmo a fare.